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La Stagnazione dei Salari in Italia: Cause Strutturali e Strategie per Aumentare la Produttività e il Benessere

Pubblicato il 02/07/2025

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La stagnazione dei salari in Italia rappresenta una delle criticità più persistenti e dibattute del panorama economico nazionale. Contrariamente alla tendenza di molti paesi europei, dove i salari reali hanno registrato una crescita significativa negli ultimi decenni, l'Italia ha visto una quasi totale assenza di aumenti, se non addirittura un calo, delle retribuzioni reali. Questa anomalia non è un fenomeno isolato, ma è profondamente interconnessa con un problema strutturale di più ampia portata: la bassa produttività. Il presente articolo si propone di analizzare le cause profonde di questa stagnazione salariale, esplorando i fattori economici, strutturali e di mercato del lavoro che ne sono alla base, e di delineare strategie concrete per stimolare la produttività e, di conseguenza, favorire una crescita sostenibile dei salari e del benessere economico complessivo del Paese.

Parte I: Le Radici dei Bassi Salari in Italia

1.1 Il Decoupling tra Produttività e Salari Reali

La relazione tra produttività e salari è un pilastro dell'economia: in condizioni ideali, l'aumento della produttività dovrebbe tradursi in salari più elevati. Tuttavia, in Italia, questo legame si è progressivamente indebolito, portando a un "decoupling" o disaccoppiamento, un fenomeno in cui la crescita della produttività non si traduce proporzionalmente in aumenti salariali. La dinamica salariale italiana è caratterizzata da una stagnazione profonda.

L'Italia è l'unico paese europeo in cui gli stipendi reali sono calati dello 0,1% nel quarto trimestre del 2023 rispetto al 2022, mentre in altri paesi dell'Unione Europea sono aumentati. I salari reali italiani non crescono ormai da circa 30 anni; tra il 1991 e il 2022, sono aumentati solo dell'1% contro una media del 32,5% nei paesi più avanzati dell'OCSE. Nel 2023, l'Italia si distingueva come l'unico Paese con un livello medio delle retribuzioni reali inferiore rispetto a dieci anni prima. Tra il 2013 e il 2023, le retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia sono aumentate complessivamente di circa il 16%, poco più della metà rispetto alla media UE27 (+30,8%). Sebbene la retribuzione nominale sia aumentata del 4,7% nel 2022 e del 3,8% nel 2023, grazie agli incrementi dei salari contrattuali, i salari reali sono diminuiti del 4% nel 2022 e di circa il 2,3% nel 2023, a causa dell'elevata inflazione.

Questo disaccoppiamento è un fenomeno storico. Il rapporto tra produttività e retribuzioni reali si è divaricato, con la produttività cresciuta più del doppio delle retribuzioni reali. Questo ha comportato un cambiamento epocale nella distribuzione del reddito, con un trasferimento dal lavoro al capitale: dal 1975 ad oggi, la quota del lavoro sul reddito nazionale è diminuita di circa dieci punti percentuali, passando dal 75% al 65%. Questo fenomeno è particolarmente pronunciato nelle imprese "alla frontiera tecnologica", dove si osserva una riduzione della quota del lavoro sul valore aggiunto. Se la quota del reddito da lavoro diminuisce, significa che i benefici derivanti dagli aumenti di produttività, anche se modesti, tendono ad andare ai proprietari del capitale (sotto forma di profitti e dividendi) piuttosto che ai lavoratori (sotto forma di salari). Ciò ha profonde implicazioni per la disuguaglianza di reddito, la coesione sociale e la domanda interna, poiché i lavoratori dispongono di un reddito disponibile inferiore per sostenere i consumi. Suggerisce inoltre una diminuzione del potere contrattuale del lavoro. Le dinamiche di "chi vince prende tutto" nelle imprese tecnologicamente avanzate indicano che, anche dove si verifica innovazione, i suoi benefici sono altamente concentrati, esacerbando la disuguaglianza salariale e contribuendo al disaccoppiamento generale. Ciò implica che il progresso tecnologico, pur essendo generalmente positivo per la produttività complessiva, può avere un effetto polarizzante sui salari se non accompagnato da politiche che garantiscano una più ampia distribuzione dei guadagni.

Il rallentamento economico italiano, evidente negli ultimi 20 anni, è fortemente legato alla bassa produttività. Fattori come l'outsourcing, la flessibilità del lavoro e la contrattazione su due livelli hanno scoraggiato gli investimenti e la produttività, intrappolando l'Italia in un modello di sviluppo a rischio di ulteriore declino.

La seguente tabella illustra la divergenza tra la crescita dei salari reali e della produttività in Italia rispetto ai principali partner europei e all'OCSE.

Tabella 1: Crescita dei Salari Reali e della Produttività (Italia vs. UE/OECD, 1991-2023)
Indicatore Periodo Italia (%) UE/OECD (%) Note
Crescita Salari Reali 1991-2022 1,0 32,5 (Paesi avanzati) Dati OCSE

Questa tabella è fondamentale perché fornisce una chiara e immediata rappresentazione quantitativa del disaccoppiamento e della stagnazione salariale italiana rispetto ai suoi principali partner europei e all'OCSE. Permette di contestualizzare la performance italiana, mostrando che non si tratta di una fluttuazione congiunturale, ma di una deviazione significativa dalle tendenze internazionali, rafforzando l'argomentazione che le cause sono strutturali e specifiche dell'Italia. I dati sulla produttività e sui salari, affiancati, consentono di evidenziare visivamente il disallineamento, ponendo le basi per l'analisi delle cause strutturali nelle sezioni successive. Ad esempio, se i salari non crescono nonostante un (seppur minimo) aumento della produttività, si rafforza l'ipotesi di un problema di distribuzione del reddito o di potere contrattuale. Mostrando il calo o la crescita minima dei salari reali, la tabella quantifica l'impatto diretto sulla capacità di acquisto dei lavoratori e sul benessere economico.

1.2 Bassa Produttività: Un Problema Strutturale

La bassa produttività è il fattore più citato come causa principale della stagnazione salariale italiana. Misurata come il rapporto tra Prodotto Interno Lordo (PIL) e ore effettive lavorate , o prodotto per unità di input , la produttività italiana è rimasta quasi ferma per decenni, a differenza di altri paesi europei.

Tra il 2003 e il 2023, la produttività italiana è cresciuta solo del 2,5%, a fronte del 9,7% in Francia, 16% in Germania, 18% in Spagna e 19,6% nella media UE. Nel 2023, la produttività del lavoro in Italia è diminuita del 2,5%, mentre in Spagna è cresciuta dello 0,6% e in Germania dell'1%. La produttività oraria italiana nel 2019 era di 36 euro, contro 49 euro in Francia e 48 euro in Germania. Questa eccezionalmente bassa crescita della produttività, rispetto alle medie UE e alle principali economie europee, non è una fluttuazione congiunturale, ma un problema strutturale di lungo periodo.

Diversi fattori strutturali contribuiscono a questo ritardo. Tra questi, la cifra irrisoria investita in ricerca e sviluppo (R&S) è un problema cronico. L'Italia continua a investire poco in questo settore, penalizzando ulteriormente la propria produttività e crescita. Il sistema finanziario italiano fatica a combinarsi efficientemente con le imprese, rendendo difficile l'accesso al credito e riducendo gli investimenti aziendali. Questa difficoltà nel fare impresa limita la capacità delle aziende di modernizzarsi e innovare.

Inoltre, l'Italia si è adeguata molto lentamente al progresso tecnologico, non riformando adeguatamente le scuole e rimanendo ferma mentre altri paesi innovavano. Questa "non innovazione" sistemica ha contribuito al declino della capacità italiana di "fare impresa". Le istituzioni internazionali, come OCSE, FMI e Commissione Europea, considerano l'inefficienza della pubblica amministrazione e l'eccessiva regolamentazione fattori chiave del rallentamento economico italiano, in quanto scoraggiano investimenti e competizione. La distribuzione dell'occupazione si è sbilanciata verso settori meno produttivi, come le costruzioni, il turismo e i servizi alla persona, mentre l'industria arretra, con un calo della produzione del 4% nel 2024, quasi il doppio rispetto alla media UE (-2,4%).

La combinazione di questi fattori crea un circolo vizioso di inazione e sottosviluppo tecnologico. La mancanza di investimenti in R&S e la lenta adozione tecnologica significano che le imprese italiane non stanno innovando i loro processi o prodotti a sufficienza per aumentare la produzione per lavoratore. Questo è aggravato da ostacoli burocratici e inefficienze normative che rendono difficile per le imprese investire e crescere, soffocando così i guadagni di produttività. Il risultato è un'economia bloccata in metodi di produzione tradizionali che non può competere in termini di efficienza o valore aggiunto. Questo ciclo negativo si autoalimenta: la bassa produttività limita la capacità di generare profitti e salari più elevati, il che a sua volta riduce l'incentivo o la capacità di investire in innovazione e R&S. Senza questi investimenti, la produttività rimane bassa, perpetuando il ciclo. Questa "inazione" sulle riforme strutturali (come la riforma scolastica menzionata in ) significa che l'Italia rimane indietro, perdendo competitività e talenti. Lo spostamento dell'occupazione verso settori meno produttivi diluisce ulteriormente i guadagni di produttività aggregata, evidenziando una cattiva allocazione delle risorse all'interno dell'economia.

La seguente tabella quantifica il deficit di produttività italiano rispetto ai suoi principali concorrenti europei su un orizzonte temporale esteso, dimostrando che si tratta di un problema strutturale di lungo periodo.

Tabella 2: Confronto della Crescita della Produttività del Lavoro (Italia vs. Principali Paesi UE, 2000-2023)
Indicatore Periodo Italia (%) Francia (%) Germania (%) Spagna (%) UE Media (%)
Crescita Produttività Oraria del Lavoro 2000-2019 3,0 19,0 20,0 17,0 -
Crescita Produttività del Lavoro 2003-2023 2,5 9,7 16,0 18,0 19,6
Variazione Produttività del Lavoro 2023 -2,5 - 1,0 0,6 -
Produttività Oraria (Euro) 2019 36 49 48 32 -

Fonte: Centro Studi Assolombarda su dati Eurostat , Pagella Politica su dati Eurostat , ISTAT

La comparazione della crescita percentuale su decenni evidenzia la marcata lentezza dell'Italia nell'aumentare la propria efficienza produttiva rispetto a paesi con economie simili. Poiché la produttività è il motore primario della crescita dei salari reali, questa tabella fornisce la prova diretta del perché i salari italiani non possano crescere in modo significativo senza affrontare il problema della produttività. Un'azienda o un'economia che produce meno valore per ora lavorata ha meno capacità di retribuire i propri dipendenti.

1.3 La Struttura del Tessuto Imprenditoriale

La composizione del sistema produttivo italiano, dominato da piccole e microimprese, è un fattore cruciale che incide negativamente sulla produttività e sulla capacità retributiva. L'economia italiana è fortemente incentrata sulle imprese piccole e medie. Nel 2022, il 94,91% delle imprese attive erano microimprese con meno di 10 dipendenti. Solo il 25% degli occupati lavorava in grandi aziende con più di 250 dipendenti nel 2023. Questa prevalenza di microimprese ha un impatto significativo sulla produttività e sull'innovazione.

Le microimprese spesso non impiegano risorse umane con competenze tecnologiche e si trovano in settori con produzione tradizionale, mostrando difficoltà e nessun progresso tecnologico. Hanno minori economie di scala, margini di profitto ridotti e meno accesso al credito, il che si traduce in minori investimenti in innovazione. Di conseguenza, sono meno produttive delle loro concorrenti europee e meno capaci di offrire buone retribuzioni, specialmente se attive in settori a basso valore aggiunto. L'aumento del numero di piccole imprese e la progressiva decentralizzazione della produzione in Italia dagli anni '70 sono interpretati da molti autori come una risposta inadeguata all'aumento del conflitto nel mercato del lavoro, scoraggiando gli investimenti.

Il "nanismo imprenditoriale" funge da freno strutturale. La dimensione media ridotta delle imprese italiane crea svantaggi intrinseci. Esse faticano a raggiungere economie di scala, limitando la loro efficienza e la loro capacità di ridurre i costi. Il loro accesso limitato ai finanziamenti ostacola la loro capacità di investire in macchinari avanzati, ricerca e sviluppo e trasformazione digitale, che sono motori critici della crescita della produttività. Questa mancanza di investimenti in innovazione significa che non possono aumentare il valore aggiunto per lavoratore, il che influisce direttamente sulla loro capacità di pagare salari più elevati. Inoltre, le imprese più piccole potrebbero essere meno attraenti per i lavoratori altamente qualificati, perpetuando un equilibrio di competenze inferiori. Questa caratteristica strutturale dell'economia italiana agisce come un freno sistemico sulla produttività nazionale complessiva e sulla crescita dei salari. Implica che una parte significativa della forza lavoro è impiegata in imprese che sono fondamentalmente limitate nella loro capacità di generare e distribuire ricchezza in modo efficiente. L'enfasi sulla "produzione tradizionale" suggerisce una resistenza o una difficoltà nell'adattarsi a modelli economici moderni e ad alto valore aggiunto.

La seguente tabella illustra la frammentazione del tessuto imprenditoriale italiano e la correlazione tra dimensione d'impresa, occupazione e capacità produttiva/retributiva.

Tabella 3: Distribuzione dell'Occupazione per Dimensione d'Impresa e Impatto sulla Produttività (Italia)
Dimensione d'Impresa % Imprese Attive (2022) % Occupati (2023) Impatto su Produttività e Salari
Microimprese (<10 dipendenti) 94,91% - Bassa produttività, difficoltà tecnologiche, meno investimenti, minore capacità retributiva
Piccole Imprese (10-19 dipendenti) - 10,2% Simili problematiche delle microimprese, ma con margini leggermente migliori.
Piccole Imprese (20-49 dipendenti) - 9,5% Simili problematiche delle microimprese, ma con margini leggermente migliori.
Medie Imprese (50-249 dipendenti) - 13,5% Maggiore potenziale di investimento e produttività rispetto alle piccole.
Grandi Imprese (>250 dipendenti) 0,09% 25,0% Livelli di produttività superiori, maggiore accesso a finanziamenti e tecnologie innovative, maggiore capacità retributiva

Fonte: ISTAT, Eurostat, CNEL

Questa tabella è cruciale per mostrare la frammentazione del tessuto imprenditoriale italiano, evidenziando la netta prevalenza di microimprese. Permette di illustrare la correlazione negativa tra la dimensione ridotta delle imprese e la loro capacità di generare alta produttività e, di conseguenza, di offrire retribuzioni competitive. Le grandi imprese, pur essendo una minoranza, impiegano una quota significativa della forza lavoro e mantengono livelli di produttività superiori, a riprova del legame dimensionale. La chiara evidenza di questa correlazione fornisce una base solida per proporre soluzioni mirate a favorire la crescita dimensionale e la cooperazione tra imprese, come discusso nella Parte II.

1.4 Disallineamento delle Competenze e Lentezza delle Carriere

Il mercato del lavoro italiano è afflitto da un significativo disallineamento tra le competenze offerte e quelle richieste, e da carriere professionali eccessivamente lente, fattori che deprimono i salari e disincentivano i giovani. L'Italia è colpita da un fenomeno noto come "skills mismatch", ovvero il disallineamento che si crea tra i percorsi di studi e le competenze richieste dalle aziende italiane, soprattutto a partire dagli anni '80. Questo problema è una delle spiegazioni principali della disuguaglianza salariale e della difficoltà di crescita dei salari. L'offerta di lavoro poco qualificata è cresciuta progressivamente nel tempo, ma la domanda è aumentata solo di poco, mentre la domanda di lavoro qualificato è salita drasticamente a fronte di un'offerta che aumentava lentamente, causando un aumento dei salari solo per i lavoratori altamente qualificati. Questo disallineamento è un fenomeno multidimensionale che genera situazioni diffuse di "labour shortage" (carenza di manodopera) in settori chiave come i servizi alle imprese e l'industria nel suo complesso. Le cause di questo divario includono le trasformazioni del sistema produttivo legate all'avanzamento tecnologico, i cambiamenti demografici che interessano la forza lavoro (come l'invecchiamento della popolazione lavorativa che genera frequenti condizioni di obsolescenza delle conoscenze), e la diffusa incapacità dei lavoratori di valutare e conoscere il funzionamento e le esigenze del mercato del lavoro. Il sistema educativo spesso non corrisponde alle reali esigenze del mercato, creando un divario tra le competenze offerte e quelle richieste dai datori di lavoro.

Parallelamente, le carriere professionali in Italia sono notoriamente lente. Gli italiani migliorano il proprio tenore di vita soprattutto in età avanzata, oltre i 55 anni, con carriere molto lente che disincentivano i giovani lavoratori. In altri paesi europei, i giovani guadagnano fin da subito, il che li rende più attrattivi per i talenti stranieri. I giovani di oggi hanno stipendi più bassi rispetto ai loro genitori, e lo "svantaggio" di essere giovani sul mercato del lavoro è raddoppiato negli ultimi tre decenni. La percentuale di giovani lavoratori che vive in povertà è aumentata, mentre per i lavoratori con più di 55 anni è diminuita.

La precarietà del lavoro è un altro elemento critico. L'85% delle nuove attivazioni di rapporti di lavoro è costituita da contratti a tempo determinato, e di questi, il 35% ha una durata effettiva inferiore ai 30 giorni, con 1,5 milioni di contratti di un solo giorno. Solo una minima quota, tra il 5% e il 7%, si trasforma in rapporti a tempo indeterminato, smentendo l'idea che il contratto a tempo determinato sia un "trampolino di lancio" verso un'occupazione di qualità. Questa precarietà colpisce in particolare le donne e il Sud Italia. La lunga stagione della deregolamentazione del mercato del lavoro e la precarietà hanno disincentivato gli investimenti in innovazione e l'aumento della produttività, oltre a far declinare i salari. La precarietà riduce anche gli incentivi alla formazione e all'acquisizione di competenze da parte dei lavoratori , creando un circolo vizioso.

Questi elementi costituiscono un doppio freno: competenze obsolete e carriere stagnanti. Il fallimento del sistema educativo nell'adattarsi alle mutevoli esigenze dell'industria comporta una persistente carenza di lavoratori qualificati nei settori ad alto valore aggiunto, mentre un'offerta eccessiva di manodopera a bassa qualifica deprime i salari in quei segmenti. Questa "carenza di manodopera" coesiste con la disoccupazione dei laureati , indicando un problema più qualitativo che quantitativo.

Contemporaneamente, la lenta progressione di carriera e l'ampia diffusione del lavoro precario disincentivano sia le imprese dall'investire nello sviluppo a lungo termine del capitale umano sia i lavoratori dall'acquisire competenze specializzate, poiché il ritorno sull'investimento è incerto. Ciò porta a una forza lavoro meno qualificata e meno motivata, ostacolando ulteriormente la crescita della produttività e mantenendo bassi i salari. La fuga dei cervelli di giovani altamente qualificati è una conseguenza diretta, poiché cercano migliori opportunità all'estero. Questo crea un circolo vizioso in cui un sistema educativo poco allineato e un mercato del lavoro precario si rafforzano reciprocamente, contribuendo alla bassa produttività e alla stagnazione salariale. Evidenzia anche un costo sociale significativo, poiché i giovani affrontano opportunità ridotte e un maggiore rischio di povertà, minando la mobilità sociale e il potenziale economico futuro. Il fenomeno dell'occupazione senza crescita in alcuni settori potrebbe essere in parte spiegato da questo, dove i posti di lavoro vengono creati ma spesso in forme a bassa produttività, a basso salario e precarie che non contribuiscono al progresso economico complessivo.

1.5 Il Peso del Cuneo Fiscale e Contributivo

Il cuneo fiscale, ovvero la differenza tra il costo del lavoro per l'impresa e il salario netto percepito dal lavoratore, è un fattore significativo che incide sulla competitività delle imprese e sul potere d'acquisto dei salari. In Italia, il cuneo fiscale pesa per il 47,1% della retribuzione nel 2024 , posizionando l'Italia al quarto posto tra i paesi OCSE per il maggiore incremento della tassazione sui salari nel 2024 (era quinto nel 2023). In pratica, per ogni 100 euro che un'impresa spende per un lavoratore, meno di 53 arrivano nelle mani del dipendente.

Questo elevato cuneo fiscale è un freno per i consumi, per la capacità di trattenere giovani qualificati e per l'attrattività del sistema Paese. Contribuisce a salari netti stagnanti e a costi del lavoro tra i più elevati d'Europa. La fiscalizzazione del cuneo incide negativamente sul recupero del potere d'acquisto per i redditi medio-bassi. Un costo del lavoro elevato, in parte dovuto al cuneo, può scoraggiare gli investimenti e la creazione di occupazione stabile.

Il cuneo fiscale agisce come un doppio ostacolo alla crescita. L'alto cuneo fiscale crea un doppio disincentivo. Per i lavoratori, riduce significativamente il loro salario netto, contribuendo direttamente alla stagnazione salariale e all'erosione del potere d'acquisto. Ciò rende l'Italia meno attraente per la manodopera qualificata e contribuisce alla fuga dei cervelli. Per le imprese, gonfia il costo totale dell'occupazione, rendendo più costoso assumere, investire nella forza lavoro e rimanere competitive a livello internazionale. Questo costo elevato, soprattutto per le microimprese meno produttive , limita la loro capacità di offrire salari più alti o di investire in misure che aumentano la produttività. La fiscalizzazione del cuneo, pur mirando a fornire un sollievo, può avere impatti complessi e talvolta negativi sul potere d'acquisto reale per determinate fasce di reddito. Il cuneo fiscale elevato agisce come una barriera strutturale sia per la domanda di lavoro (da parte delle imprese) sia per l'offerta di lavoro (riducendo l'attrattiva del lavoro/salari). Perpetua un equilibrio di bassi salari e bassi investimenti, ostacolando il dinamismo economico complessivo e la competitività. Incentiva inoltre il lavoro informale , erodendo ulteriormente la base imponibile e i servizi pubblici.

La seguente tabella fornisce una quantificazione diretta del peso del cuneo fiscale sul costo del lavoro in Italia e lo confronta con altri paesi, rendendo immediatamente evidente la gravità del problema.

Tabella 4: Cuneo Fiscale sul Costo del Lavoro (Italia vs. Paesi OCSE, 2024)
Paese Cuneo Fiscale sul Costo del Lavoro (2023) (%) Cuneo Fiscale sul Costo del Lavoro (Stima 2024) (%) Posizione OCSE (2024) Ripartizione Contributi Sociali (2021)
Italia 45,1 47,1 / 43,7 (stima Assolombarda) 4° / 5° 24% a carico aziende, 6,6% a carico lavoratori
Belgio - - 1° (2023) -
Germania - - 2° (2023) -
Austria - - 3° (2023) -
Francia - - 4° (2023) -
Finlandia - - - Riduzione cuneo (-1,57%)
Regno Unito - - - Riduzione cuneo (-1,74%)
Portogallo - - - Riduzione cuneo (-1,75%)

Fonte: OCSE “Taxing Wages 2025” , Assolombarda , Commissione Europea

La comparazione internazionale è essenziale per dimostrare che l'Italia ha un onere fiscale sul lavoro significativamente più alto rispetto a molti concorrenti, il che ne mina la competitività. Dettagliare come il cuneo si scompone tra imposte e contributi a carico di azienda e lavoratore aiuta a comprendere chi sopporta maggiormente il peso e dove potrebbero essere indirizzati gli interventi di riforma. La tabella fornisce il contesto empirico per le proposte di riduzione del cuneo fiscale nella Parte II, mostrando l'ampiezza del margine di manovra e il potenziale impatto positivo.

1.6 Altri Fattori Contributivi

Oltre ai fattori principali, diverse altre problematiche strutturali dell'economia italiana contribuiscono indirettamente alla bassa produttività e alla stagnazione salariale. Un onere significativo è rappresentato dagli enormi interessi pagati sul debito pubblico, elencati tra i problemi strutturali che contribuiscono ai bassi salari. Il debito pubblico in rapporto al PIL è stimato in aumento al 137,0% nel 2025 e 137,6% nel 2026. Un alto debito pubblico aumenta il carico fiscale e scoraggia gli investimenti , poiché una parte considerevole delle risorse pubbliche viene destinata al servizio del debito anziché a investimenti produttivi in infrastrutture, ricerca e sviluppo o istruzione.

L'alta evasione fiscale è un altro fattore menzionato tra le cause strutturali. Ridurre significativamente l'economia sommersa è una proposta chiave per riequilibrare il carico fiscale e garantire una concorrenza equa. L'evasione fiscale riduce la base imponibile, rendendo necessario un carico fiscale più elevato per le imprese e i lavoratori che rispettano le norme, o portando a una sottofinanziamento dei servizi pubblici cruciali per la crescita. Anche l'alta spesa pensionistica è citata come un problema strutturale che incide sui salari. Similmente al debito pubblico, l'elevata spesa pensionistica compete per i fondi pubblici, limitando la capacità del governo di attuare politiche a favore della crescita.

L'Italia sta affrontando una profonda trasformazione demografica, con un progressivo invecchiamento della popolazione e un calo della natalità, che comprimono la popolazione in età lavorativa e aumentano il numero di lavoratori over 50. Questo porta a fabbisogni occupazionali prevalentemente legati alla sostituzione di pensionamenti e altre uscite dal mercato del lavoro, stimati tra 3,4 e 3,9 milioni di unità per il quinquennio 2024-2028. La crisi demografica, unita alla tendenza di giovani che non lavorano e non studiano, crea una miscela potenzialmente esplosiva , poiché riduce il pool di lavoratori più giovani, potenzialmente più adattabili e tecnologicamente qualificati.

Questi fattori rappresentano il peso del passato e del futuro demografico sulla competitività presente. Sono questioni sistemiche e di lungo periodo che creano un ambiente macroeconomico difficile. Limitano lo spazio fiscale per politiche proattive volte a stimolare la produttività e i salari, costringendo essenzialmente l'economia a operare con handicap strutturali. La tendenza demografica, in particolare, suggerisce che senza interventi politici significativi (ad esempio, immigrazione, aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro, età pensionabile più elevate), l'offerta di lavoro si ridurrà, potenzialmente aggravando le carenze di manodopera e limitando ulteriormente la crescita economica e gli aumenti salariali.

Parte II: Strategie per Aumentare la Produttività e Migliorare i Salari

2.1 Il Legame Virtuoso tra Produttività e Salari

Ristabilire il legame tra produttività e salari è fondamentale per il benessere economico. L'aumento della produttività è indispensabile per mantenere il benessere economico, portando a prezzi più bassi, salari più alti, profitti più alti e un'economia stabile e forte. Sebbene il disaccoppiamento tra produttività e salari sia un problema evidente in Italia , in teoria, un aumento della produttività significa che ogni lavoratore produce più valore in un dato tempo. Questo maggiore valore può essere distribuito in vari modi: attraverso salari più elevati per i lavoratori, profitti maggiori per le imprese (che possono reinvestire o distribuire dividendi) e/o prezzi più bassi per i consumatori. L'Economist e altri studi sottolineano il legame oggettivo tra crescita retributiva e aumento della produttività. Tuttavia, è cruciale garantire che i guadagni di produttività siano ampiamente condivisi. Ciò può avvenire anche attraverso il rafforzamento delle competenze dei lavoratori, che supporta i salari alla base della distribuzione e aumenta la quota del lavoro. La nuova economia digitale presenta il paradosso di un aumento della potenza di calcolo che non sempre corrisponde a un aumento della produttività complessiva o a una distribuzione equa dei salari, portando a una polarizzazione dove i salari alti diventano altissimi e quelli medi diventano bassi. Affrontare questi paradossi è chiave per tradurre l'innovazione in benessere diffuso.

La produttività è una condizione necessaria ma non sufficiente per salari alti. Sebbene la crescita della produttività crei il potenziale per salari più elevati aumentando il valore creato per lavoratore, la sua traduzione in aumenti salariali effettivi non è automatica. Dipende da diversi fattori intermediari: il potere contrattuale del lavoro (se debole, le imprese possono catturare una quota maggiore dei guadagni di produttività come profitti, anziché trasferirli come salari), la struttura del mercato (le dinamiche di "chi vince prende tutto" e la prevalenza di piccole imprese possono concentrare i guadagni di produttività in poche grandi imprese all'avanguardia), la distribuzione delle competenze (se il cambiamento tecnologico avvantaggia in modo sproporzionato i lavoratori altamente qualificati, può esacerbare la disuguaglianza salariale, portando a salari più alti al vertice ma stagnanti o in calo per il lavoratore mediano) e le politiche e regolamentazioni (le normative del mercato del lavoro, le politiche fiscali e i quadri della contrattazione collettiva influenzano tutti il modo in cui i guadagni di produttività vengono distribuiti).

Questo aspetto è cruciale perché sposta l'attenzione dal semplice aumento della produttività a come i suoi guadagni vengono distribuiti. Semplicemente aumentare la produttività senza affrontare i problemi della struttura del mercato del lavoro, del potere contrattuale, dell'allineamento delle competenze e della politica fiscale potrebbe solo esacerbare la disuguaglianza anziché aumentare ampiamente i salari reali. Pertanto, è necessario un approccio multi-disciplinare, che combini misure dal lato dell'offerta per aumentare la produttività con riforme istituzionali e normative per garantire una distribuzione equa della ricchezza.

2.2 Investire in Innovazione e Digitalizzazione

La promozione di investimenti mirati in innovazione e digitalizzazione è una leva fondamentale per innalzare la produttività e, di conseguenza, i salari. È cruciale aumentare e accelerare l'innovazione tecnologica delle imprese italiane, ripristinando ed estendendo le misure previste dal piano Industria 4.0, ora evoluto in Transizione 5.0. Questo include l'incentivazione degli investimenti nella transizione energetica e nella sostenibilità delle filiere italiane, in linea con le nuove direttive europee come il Green Deal.

Per stimolare la ricerca e lo sviluppo (R&S), si propone di aumentare i limiti per i crediti R&D, ampliare il regime del patent box a ulteriori beni immateriali e incrementare il beneficio previsto, anche per incentivare il "re-shoring" ad alto valore aggiunto. È altresì cruciale rafforzare le misure di sostegno alle start-up e PMI innovative, incrementando le agevolazioni fiscali per l'investimento da parte di individui, società e fondi specialistici (detassazione proventi e aumento dell'ammontare di detrazione e deduzione) e aumentando i massimali previsti per gli investimenti annui. L'intelligenza artificiale è riconosciuta come un tema chiave per il Sistema Italia, con Confindustria che esplora le sue applicazioni nelle aziende italiane e propone misure specifiche.

L'innovazione agisce come catalizzatore di valore aggiunto e attrattività. La bassa produttività e i bassi salari sono strettamente legati a scarsi investimenti in ricerca e sviluppo e a una lenta adozione tecnologica. Al contrario, l'alta tecnologia e il valore aggiunto sono considerati cruciali per la crescita. Le proposte di estendere le misure di Industria 4.0/5.0, i crediti d'imposta per la R&S e il sostegno alle start-up innovative sono direttamente volte a invertire questa tendenza.

Investire in innovazione (compresa l'intelligenza artificiale) e digitalizzazione consente alle imprese di automatizzare i processi, migliorare l'efficienza e sviluppare prodotti e servizi nuovi e a più alto valore aggiunto. Ciò aumenta direttamente la produzione per lavoratore, ovvero la produttività. Una maggiore produttività, a sua volta, genera maggiori ricavi e profitti per dipendente, creando la capacità finanziaria per le imprese di offrire salari più elevati. Inoltre, un'economia tecnologicamente avanzata attrae e trattiene talenti altamente qualificati, creando un circolo virtuoso in cui l'innovazione alimenta la produttività, che alimenta i salari, che attrae talenti, alimentando ulteriormente l'innovazione. Questa strategia non riguarda solo l'efficienza; si tratta di spostare l'economia italiana dalla produzione tradizionale a basso valore aggiunto verso settori con un maggiore potenziale di crescita. Affronta anche il disallineamento delle competenze dal lato della domanda, creando la necessità di manodopera più qualificata che possa richiedere salari migliori. L'attenzione al "re-shoring ad alto valore aggiunto" indica l'ambizione non solo di crescere, ma di crescere in aree strategiche e ad alto impatto.

2.3 Sviluppo del Capitale Umano e delle Competenze

Un investimento massiccio e mirato nello sviluppo del capitale umano e delle competenze è indispensabile per colmare il divario tra domanda e offerta di lavoro e per migliorare la produttività. È fondamentale riformare il sistema educativo per allineare l'offerta formativa alle esigenze del mercato, con un focus maggiore sulle competenze tecniche e professionali richieste dalle aziende. L'Italia si è storicamente adeguata lentamente al progresso tecnologico anche per la mancata riforma delle scuole.

Si devono incentivare programmi di "reskilling" manageriale per stimolare l'adozione delle competenze necessarie ad adattare i sistemi produttivi alle nuove esigenze. È essenziale promuovere la riqualificazione della forza lavoro e dei disoccupati attraverso fondi specializzati e incentivi, come la defiscalizzazione delle spese di formazione, la riduzione del cuneo fiscale e il co-finanziamento per l'acquisto di strumenti digitali. Un'area chiave di intervento è il potenziamento dell'istruzione terziaria professionalizzante. Si propone la creazione di un canale di istruzione terziaria professionalizzante di dimensioni consistenti, incentivando "lauree professionalizzanti" e Istituti Tecnici Superiori (ITS), con campagne di comunicazione sui loro eccellenti esiti occupazionali e un incremento delle risorse finanziarie a loro destinate. Gli ITS, in particolare, rappresentano un modello "duale" compiuto in Italia per la stretta collaborazione con le imprese.

È necessario promuovere lo sviluppo di progetti di qualificazione professionale "di filiera" basati su alleanze tra agenzie formative, istituti tecnici, università e imprese. Il lancio di una piattaforma digitale "education-to-employment" su scala nazionale, con corsi di formazione sviluppati dalle aziende, può colmare i gap di competenze. Infine, il supporto ai ricercatori è cruciale: incentivare la mobilità, l'attrazione e il bilanciamento di genere dei ricercatori attraverso incentivi fiscali e percorsi di carriera più competitivi. È inoltre importante innovare il dottorato di ricerca creando un percorso di "applied PhD" per formare figure professionali a più elevata specializzazione per il mercato del lavoro, in collaborazione con imprese e amministrazioni pubbliche.

Il capitale umano è il motore di crescita ed equità salariale. Il "disallineamento delle competenze" è un problema importante , che porta sia a carenze di manodopera sia alla disoccupazione dei laureati. La lentezza delle carriere e la fuga dei cervelli sono anch'esse questioni rilevanti. Le proposte del governo e di altre fonti sottolineano fortemente la riforma dell'istruzione, la promozione del reskilling/upskilling, il rafforzamento degli ITS e il sostegno ai ricercatori. Una forza lavoro ben istruita e qualificata è direttamente collegata a una maggiore produttività. Allineando l'offerta formativa alla domanda del mercato , l'Italia può ridurre il divario di competenze, garantendo che le imprese trovino i talenti di cui hanno bisogno per l'innovazione e la crescita. I programmi di reskilling e upskilling affrontano l'obsolescenza delle conoscenze dovuta al rapido cambiamento tecnologico , consentendo ai lavoratori esistenti di adattarsi e rimanere produttivi. Investire nell'istruzione terziaria professionale (ITS) e nei dottorati applicati crea un flusso di professionisti altamente specializzati direttamente pertinenti alle esigenze dell'industria. Questa maggiore offerta di competenze pertinenti non solo aumenta la produttività complessiva, ma rafforza anche il potere contrattuale dei lavoratori, consentendo loro di richiedere salari più elevati, affrontando così la disuguaglianza salariale e promuovendo una più ampia condivisione dei guadagni di produttività. Aiuta anche a trattenere i talenti e a invertire la fuga dei cervelli. Questa strategia va oltre la semplice creazione di posti di lavoro per creare posti di lavoro di qualità. Riconosce che il capitale umano non è solo un input ma un motore di innovazione e competitività. Investendo nelle persone, l'Italia può trasformare la sua struttura economica, promuovendo settori a più alto valore aggiunto e garantendo che i benefici della crescita siano distribuiti più equamente tra la forza lavoro, influenzando direttamente il salario mediano.

2.4 Favorire la Crescita Dimensionale e la Cooperazione delle Imprese

Per superare i limiti imposti dal "nanismo" imprenditoriale, è cruciale incentivare la crescita dimensionale delle imprese italiane e promuovere forme di cooperazione. È necessario potenziare e agevolare l'utilizzo di strumenti collaborativi e aggregativi, come le Reti d'impresa e le Associazioni Temporanee d'Impresa. Si dovrebbero incentivare le aggregazioni attraverso defiscalizzazioni della quota di maggior reddito, ammortamento del goodwill e agevolazioni per le imprese in crisi. Un altro aspetto fondamentale è il rafforzamento della capitalizzazione delle imprese, dato che la sotto-capitalizzazione è un problema diffuso tra molte di esse. Questo è essenziale per consentire alle imprese di investire e crescere. Infine, è importante sostenere il rilancio dell'export italiano con un piano volto a minimizzare gli impatti dell'emergenza e a comunicare l'eccellenza settoriale. Parallelamente, si deve incentivare il re-insediamento in Italia di attività ad alto valore aggiunto, come R&S strategica e produzione in settori ad alta componente tecnologica, rafforzando così il sistema Paese e la sua competitività.

La dimensione è la chiave per l'innovazione e la competitività globale. La prevalenza di microimprese è una barriera strutturale significativa alla produttività e alla crescita dei salari a causa di innovazione limitata, accesso al credito e economie di scala. Le proposte del governo e di Confindustria raccomandano esplicitamente di favorire la crescita dimensionale, la cooperazione e il rafforzamento della capitalizzazione delle PMI. Le imprese più grandi hanno generalmente una maggiore capacità di investire in ricerca e sviluppo, adottare tecnologie avanzate, accedere a finanziamenti diversificati e raggiungere economie di scala. Incentivando le aggregazioni e sostenendo la crescita delle PMI in imprese di medie e grandi dimensioni, l'Italia può sbloccare significativi guadagni di produttività. Queste imprese più grandi e meglio capitalizzate sono meglio posizionate per competere sui mercati globali, attrarre manodopera altamente qualificata e offrire salari più competitivi. La cooperazione attraverso le reti consente alle imprese più piccole di mettere in comune le risorse, condividere le conoscenze e accedere a mercati o tecnologie che sarebbero altrimenti irraggiungibili individualmente, imitando efficacemente alcuni vantaggi della scala maggiore. Questa strategia mira a trasformare la struttura stessa dell'industria italiana, allontanandosi da un modello che ha storicamente limitato la crescita. Si tratta di creare un ecosistema imprenditoriale più dinamico e resiliente, capace di generare un valore aggiunto più elevato e di sostenere salari più alti. L'attenzione al "reshoring ad alto valore aggiunto" sottolinea ulteriormente il desiderio di attrarre e far crescere imprese che contribuiscano in modo significativo alla ricchezza nazionale e all'occupazione di qualità.

2.5 Riforma del Mercato del Lavoro e della Contrattazione Collettiva

Intervenire sul mercato del lavoro e sul sistema di contrattazione collettiva è essenziale per ridurre la precarietà, aumentare la stabilità occupazionale e legare maggiormente i salari alla produttività. La lunga stagione della deregolamentazione ha disincentivato gli investimenti in innovazione e l'aumento della produttività. La precarietà del lavoro è dannosa anche per l'impresa e riduce la formazione e le competenze dei lavoratori. Si propone di rendere più onerosi i contratti a termine per le imprese, facendo pagare un "prezzo" per il rischio d'impresa scaricato sul lavoro a termine , e di ridimensionare il loro utilizzo, vincolandoli a casi specifici.

La contrattazione collettiva è l'elemento primario per assicurare condizioni salariali più adeguate. È necessario rafforzare la contrattazione di secondo livello (aziendale e territoriale) legata alla produttività, dato che questa è meno diffusa al Sud e manca un archivio unico per monitorarla. Gli incentivi alla contrattazione decentrata, come la detassazione dei premi di produttività, sono già presenti ma necessitano di un'analisi qualitativa per valutarne l'efficacia. Le politiche attive del lavoro hanno visto un notevole aumento dei partecipanti post-pandemia (+178,1% rispetto al 2019). Tuttavia, l'Italia soffre ancora di bassa mobilità interna e carenza di lavoratori non-UE. Le politiche dovrebbero favorire la riallocazione dei lavoratori verso settori più produttivi. Infine, è cruciale affrontare il fenomeno del dumping contrattuale, che comporta la riduzione dei trattamenti retributivi e normativi dei lavoratori ed è radicato in alcuni settori e aree, come il terziario di mercato. Molti contratti in dumping escludono voci importanti come la quattordicesima o il welfare contrattuale, che sono invece sempre più rilevanti nei rinnovi contrattuali "genuini".

La stabilità lavorativa è una precondizione per investimenti e competenze. L'elevata precarietà del mercato del lavoro (l'85% dei nuovi contratti è a tempo determinato ) è esplicitamente collegata al disincentivo all'innovazione, alla produttività e alla formazione dei lavoratori. La contrattazione collettiva, in particolare quella di secondo livello, è considerata fondamentale per i salari, ma presenta delle criticità. Quando le imprese fanno ampio ricorso a contratti a termine, hanno meno incentivi a investire nella formazione e nello sviluppo a lungo termine della loro forza lavoro, poiché il ritorno sull'investimento è incerto. Ciò influisce direttamente sull'accumulazione di capitale umano e, di conseguenza, sulla produttività. Per i lavoratori, la precarietà riduce la motivazione ad acquisire competenze specializzate e limita la progressione di carriera, portando a salari stagnanti. Il "dumping contrattuale" esacerba ulteriormente i bassi salari minando la contrattazione collettiva autentica. Promuovere l'occupazione stabile (ad esempio, rendendo i contratti a termine più onerosi ) incoraggia le imprese a investire nelle competenze dei propri dipendenti e a integrarli più profondamente nei processi che aumentano la produttività. Allo stesso tempo, rafforzare la contrattazione collettiva di secondo livello , in particolare collegandola ai guadagni di produttività, garantisce che i lavoratori beneficino direttamente dell'aumento dell'efficienza. Ciò crea un circolo virtuoso: lavoratori stabili e ben formati sono più produttivi, e la loro maggiore produttività si traduce in salari più elevati, rafforzando la motivazione e ulteriori investimenti in competenze. Migliorare la mobilità del lavoro aiuta ad allocare i lavoratori verso settori più produttivi, aumentando l'efficienza complessiva. Questo approccio riconosce che una flessibilità eccessiva del mercato del lavoro può essere dannosa per la produttività e la crescita dei salari a lungo termine. Mira a un equilibrio in cui la flessibilità supporta l'allocazione efficiente delle risorse ma non mina lo sviluppo del capitale umano o la giusta distribuzione dei salari. Si tratta di passare da un modello di "lavoro a basso costo" a un modello di "lavoro ad alto valore".

2.6 Politiche Fiscali a Sostegno di Lavoro e Impresa

Una riforma fiscale mirata è cruciale per ridurre il costo del lavoro, aumentare i salari netti e stimolare gli investimenti. È necessaria una riforma strutturale del cuneo fiscale che riduca in modo stabile il peso fiscale e contributivo sul lavoro. Un taglio anche solo del 5% permetterebbe a un lavoratore medio (30.000 € lordi annui) di ricevere oltre 1.200 € netti in più all'anno. Questo aumenterebbe il potere d'acquisto, sosterrebbe la domanda interna e disincentiverebbe il lavoro irregolare. Le misure attuali di riduzione del cuneo fiscale, come l'esonero contributivo e la rimodulazione degli scaglioni IRPEF, hanno già portato a una discesa stimata al 43,7% nel 2024.

Per stimolare gli investimenti e le nuove assunzioni, si devono prevedere incentivi fiscali. In particolare, è proposta una maggiorazione del 20% della deduzione del costo del lavoro incrementale derivante da nuove assunzioni a tempo indeterminato, che può salire fino al 30% nei casi di lavoratori appartenenti a categorie svantaggiate. Questi incentivi mirano a favorire gli investimenti e lo sviluppo di competenze. Infine, è fondamentale ridurre significativamente l'economia sommersa per riequilibrare il carico fiscale e garantire una concorrenza equa. Le iniziative proposte includono meccanismi di Voluntary Disclosure per l'emersione del lavoro nero e dei redditi non dichiarati, e l'accelerazione del passaggio ai pagamenti elettronici, incentivandone l'uso.

La leva fiscale è uno strumento potente per rilanciare la domanda e l'offerta di lavoro di qualità. L'elevato cuneo fiscale è un fattore importante che contribuisce ai bassi salari netti e agli alti costi del lavoro per le imprese. Anche l'evasione fiscale e l'economia informale sono problemi rilevanti. Le proposte includono tagli strutturali al cuneo fiscale , incentivi fiscali per nuove assunzioni a tempo indeterminato e la lotta all'economia informale. Una riduzione strutturale del cuneo fiscale aumenta direttamente il reddito netto dei lavoratori, aumentando il loro potere d'acquisto e stimolando la domanda interna. Per le imprese, riduce il costo effettivo del lavoro, rendendo più conveniente assumere, trattenere e investire nei dipendenti, aumentando così potenzialmente l'occupazione e riducendo l'incentivo al lavoro irregolare. Gli incentivi fiscali per le nuove assunzioni a tempo indeterminato mirano specificamente al problema della precarietà e incoraggiano l'occupazione stabile. La lotta all'evasione fiscale e all'economia informale amplia la base imponibile, consentendo una distribuzione più equa del carico fiscale e potenzialmente liberando risorse per ulteriori tagli fiscali o investimenti pubblici a sostegno della produttività. Questa strategia affronta sia il lato dell'offerta che quello della domanda del mercato del lavoro. Rendendo il lavoro più gratificante finanziariamente per i dipendenti e meno costoso per i datori di lavoro, mira a creare un mercato del lavoro più dinamico e attraente. Non si tratta solo di ridurre le tasse, ma di riequilibrare il carico fiscale per promuovere un'occupazione formale, stabile e ben retribuita, che a sua volta supporta la produttività e la crescita economica complessiva.

Conclusioni

La stagnazione dei salari in Italia non è un sintomo isolato, ma la manifestazione di profonde criticità strutturali che affliggono l'economia da decenni. La bassa produttività, il "grande disaccoppiamento" tra produttività e salari, la prevalenza di un tessuto imprenditoriale frammentato e poco innovativo, il disallineamento tra competenze e fabbisogni del mercato, la lentezza delle carriere e l'elevato cuneo fiscale sono tutti fattori interconnessi che alimentano un circolo vizioso di bassa crescita e limitato benessere. Per invertire questa tendenza e sbloccare il potenziale di crescita dell'Italia, è imperativo adottare un approccio integrato e di lungo termine.

Le strategie delineate, che spaziano dall'investimento massiccio in innovazione e digitalizzazione allo sviluppo mirato del capitale umano, dalla promozione della crescita dimensionale e della cooperazione tra imprese alla riforma del mercato del lavoro e a politiche fiscali più favorevoli, non sono soluzioni isolate, ma pilastri di un'unica visione strategica. Solo attraverso un impegno coordinato e persistente su tutti questi fronti sarà possibile ristabilire il legame virtuoso tra produttività e salari, garantendo che i guadagni economici si traducano in un benessere diffuso per tutti i lavoratori italiani e che il Paese possa competere efficacemente nel panorama globale. Questo richiede una visione di sistema che superi gli interventi frammentari e si concentri sulla creazione di un ambiente economico che premi l'efficienza, l'innovazione e la valorizzazione del capitale umano, elementi indispensabili per una crescita sostenibile e inclusiva.

Bibliografia